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Una cura per il diabete potrebbe arrivare da un’altra malattia autoimmune: la psoriasi

I primi 127 pazienti sono già stati selezionati in diversi ospedali svedesi. Perché loro, pur avendo avuto una diagnosi di diabete di tipo 1, autoimmune, negli ultimi tre mesi, mantengono una certa produzione di insulina. Hanno tra i 18 e 35 anni, e saranno trattati con una terapia che ha uno scopo ben preciso: preservare ciò che resta della funzionalità delle cellule beta del pancreas attraverso un’azione sul sistema immunitario che cerca di distruggere proprio quelle cellule. Per raggiungerlo, lo strumento utilizzato è un’intera categoria di farmaci biologici, inibitori di una citochina specifica, cioè di uno dei mediatori delle reazioni infiammatorie-immunitarie, l’interleuchina 17 (IL17), già approvati in clinica per un’altra malattia autoimmune, la psoriasi.

Che cosa c’entra la psoriasi con il diabete di tipo 1? Secondo gli ideatori dello studio, diabetologi e immunologi dell’Università di Goteborg, molto, perché ricerche di base effettuate negli ultimi anni hanno dimostrato che entrambe le malattie coinvolgono le stesse cellule e gli stessi meccanismi. In particolare, si tratta di cellule chiamate TRM, che agiscono innalzando i livelli di IL17. Per questo si pensa che abbassare i livelli di quell’interleuchina possa funzionare nel diabete come accade nella psoriasi. Una parte dei partecipanti riceverà un placebo, e ci si aspetta di vedere risposte differenziate al trattamento, perché esistono diversi sottotipi di diabete di tipo 1, a seconda delle caratteristiche immunologiche. Ma se anche solo una parte di pazienti dovesse rispondere, per la prima volta ci potrebbe essere una cura che ferma la distruzione delle cellule del pancreas. E quella cura potrebbe essere già disponibile.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 24 marzo 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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